CORONAVIRUS: CRONACA DI UN COLLASSO ANNUNCIATO

CORONAVIRUS: CRONACA DI UN COLLASSO ANNUNCIATO

Alla fine è arrivata. L’11 marzo 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’ha definita pandemia, cioè una epidemia con tendenza a diffondersi rapidamente attraverso vastissimi territori o continenti.

Al di là dei giudizi sulle scelte operate dal governo di questo o di altri Stati successivamente all’emergere del COVID – 19, ci interessa accendere i riflettori sui motivi per cui siamo attualmente costretti a rimanere chiusi in casa, in Italia e nelle province che la compongono.

Se siamo chiusi in casa la ragione principale è la certezza di un collasso del Sistema Sanitario Nazionale in caso di diffusione del contagio senza freni. La carenza dei nostri posti letto in terapia intensiva può essere ben rappresentata dal confronto con un altro Paese dell’UE, la Germania: quest’ultima ha 29 posti letto di terapia intensiva ogni centomila abitanti, il triplo rispetto a quelli dell’Italia (Fonte: https://www.agi.it/fact-checking/news/2020-03-06/coronavirus-posti-letto-ospedali-7343251/). Viene da chiedersi il perché di questa differenza, o se vogliamo dirla tutta, il perché di questa arretratezza.

Posti letto

Grafico 1 – Posti letto nei reparti di terapia intensiva in Italia per ogni 100mila abitanti

Ebbene, osservando i dati riportati dal rapporto Gimbe 2019 (4° Rapporto sulla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale – SSN) possiamo renderci conto di come, tra il 2010 e il 2019, siano stati tagliati 37 miliardi di Euro al Sistema Sanitario Nazionale. E’ facilmente intuibile l’entità del danno, basti considerare indicativamente che la spesa annuale del 2016 si è aggirata intorno ai 140 miliardi di Euro. Qualcuno pensava davvero che tagliando ¼ del finanziamento al SSN in 10 anni sarebbe stato possibile essere pronti ad una epidemia globale? Era sicuramente impossibile prevedere il “quando” e il “come” si sarebbe manifestata, ma era altrettanto certo che ciò sarebbe prima o poi avvenuto.

Andiamo avanti e osserviamo un altro aspetto di questa preparazione alla crisi.

Per fronteggiare un’emergenza sanitaria c’è bisogno di disporre di sufficiente personale specializzato. In Italia i fondi destinati all’istruzione e alla ricerca sono stati saccheggiati per far fronte ad altre spese pubbliche, ne conosciamo molte di quelle inutili, dannose e illegittime, ad esempio il Gasdotto Snam sulla dorsale sismica appenninica e gli interessi sul debito pubblico. Insomma, più sono passati gli anni e più siamo diventati leader in Europa nel disinvestimento da questi settori strategici per l’interesse pubblico: siamo ultimi nella percentuale di spesa pubblica destinata a istruzione e ricerca, l’Italia si attesta al 7,9% a fronte di una media UE del 10% (Relazione di monitoraggio del settore dell’istruzione e della formazione 2019). Di conseguenza a farne le spese è stato anche il Servizio Sanitario Nazionale. L’introduzione del numero chiuso come sistema di selezione per l’accesso agli studi universitari in ambito medico ha, di fatto, creato una voragine impossibile da colmare in piena emergenza: per renderci bene conto di quanti aspiranti medici abbiamo rimbalzato negli anni, riportiamo a titolo esemplificativo i numeri dei test d’ingresso del 2019: 68mila giovani per 12mila posti (https://tg24.sky.it/cronaca/2019/09/03/test-facolta-numero-chiuso.html).

Se poi ci servisse un ulteriore dimostrazione, per capire che un sistema economico basato solo sul profitto di pochi e non sull’interesse pubblico prima o poi arriva a mettere in discussione le sue stesse regole fondamentali, basti ripresentare il caso a noi molto vicino del Mario Negri Sud. Questo ente di ricerca situato a Santa Maria Imbaro, con una storia di 30 anni di attività proprio nel settore biomedico, è stato capace di vantare pubblicazioni di interesse mondiale e di essere un punto di riferimento per il nostro territorio. La sua fine nel 2015 è emblematica. Le istituzioni pubbliche non sono intervenute per sostenere l’ente ma per affossarlo, i soldi pubblici fin allora investiti e le competenze di dipendenti e ricercatori che vi lavoravano sono state sprecate, così facendo è stata chiusa la struttura e sono state arrestate le sue attività.

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In conclusione c’è una cosa che chi rimarrà dovrebbe aver imparato da questo collasso, preparato minuziosamente seguendo un’ideologia miope definita neoliberismo: se vogliamo costruire una società in cui la vita abbia valore, allora alla vita non deve essere assegnato un prezzo.

CITTADINANZA EUROPEA: I DIRITTI COME POSTA IN GIOCO

CITTADINANZA EUROPEA: I DIRITTI COME POSTA IN GIOCO

Calare la cittadinanza europea all’interno di un contesto locale può sembrare un esercizio astratto e noioso. In realtà, pur non essendo un percorso privo di difficoltà, bisogna partire necessariamente dai diritti, esigibili o da rivendicare, per inquadrare il rapporto tra individuo e ordine giuridico-politico in Europa.

La prima domanda da porsi è: ogni cittadino europeo gode degli stessi diritti?

Proviamo a rispondere prendendo come esempio l’esigibilità del diritto alla salute. Lo stato dell’arte in Provincia di Chieti si può riassumere così: presidi ospedalieri gradualmente depotenziati e difesi a denti stretti dalle comunità che servono, così succede ad Atessa, Guardiagrele, Lanciano, etc.; provvedimenti della ASL che dirottano i medici del 118 nei Pronto Soccorso, lasciando le responsabilità mediche sulle ambulanze al personale sanitario; chiusure dei reparti negli ospedali a causa di carenza di personale, ovvero poche assunzioni negli ultimi anni.

Ora, volendo comparare la nostra situazione con la possibilità di veder riconosciuto il proprio diritto alla salute per un cittadino residente a Berlino, Torino o Vienna, viene subito da pensare che in fin dei conti un po’ di differenze ci sono. Giusto quel tanto che basta per rimetterci le penne per un intervento tardivo in caso di emergenza, o quel tanto che basta per entrare in ospedale con un dito rotto ed uscirne con una diagnosi indicante l’amputazione.

sanità regionale

 

Fonte: https://www.youtrend.it/2019/07/10/la-sanita-italiana-e-quel-gap-persistente-tra-centronord-e-mezzogiorno/

D’accordo, concediamoci il beneficio del dubbio e dal diritto alla salute saltiamo al diritto del lavoro. A questo punto ci potremmo chiedere se un cittadino europeo che abita in Lussemburgo ha le stesse condizioni di lavoro di un cittadino europeo residente a Lanciano e dintorni.

Per restringere il campo d’indagine concentriamoci sul salario minimo, cioè quanto deve essere pagata almeno una persona per ogni ora di lavoro: in Lussemburgo ci aggiriamo attorno agli 11 euro (https://www.askanews.it/economia/2019/03/13/da-12-euro-in-lussemburgo-a-162-in-bulgaria-mappa-salario-minimo-pn_20190313_00071/), in Italia manca una legge che abbia istituito il salario minimo, dunque il datore di lavoro può anche fare un contratto in cui è previsto un salario da 3 euro l’ora.

Salario minimo ue

Volendo tirare delle somme viene da sé che la cittadinanza europea ha unificato i diritti dei cittadini degli Stati Nazione membri dell’Unione Europea solo in un modo: ha concesso a tutti il diritto di potersi muovere liberamente da uno Stato all’altro per lavorare, o meglio ancora per essere funzionale ai mercati capitalistici; peccato che il Trattato di Schengen, cioè il Trattato che ha introdotto questo diritto, può essere sospeso ogni volta che uno Stato lo ritiene necessario, ad esempio quando in uno Stato sta per compiersi una manifestazione di protesta contro le disuguaglianze causate dalla deregolamentazione dei mercati capitalistici.

Spesso ci si ritrova ad ascoltare opinioni che descrivono l’Unione Europea impegnata nel soffocare la libertà degli Stati membri. E’ difficile credere ad una tale affermazione considerando che l’architettura istituzionale europea non è nient’altro che un insieme di Trattati firmati dai governi degli Stati, un insieme di accordi sovrapposti, i quali producono effetti solo perché sono il frutto della volontà di forze politiche elette democraticamente all’interno dei contesti giuridici e politici nazionali.

Semmai quello che si può notare, quando un cittadino della Provincia di Chieti emigra in un altro Stato europeo, è la ricerca di condizioni di vita migliori, quali ad esempio la possibilità di accedere celermente ai servizi di cura e l’opportunità di veder valorizzato il proprio lavoro con uno stipendio dignitoso. Se si volesse intervenire sulla cittadinanza europea ci sarebbe da esultare. Invece di lasciare l’Europa in un abbraccio mortale tra tecnocrazia finanziaria e cooperazione intergovernativa, che sia finalmente giunto il momento di iniziare a lottare per un’europeizzazione dei diritti sociali?

L’INTEGRAZIONE DELLA DISUGUAGLIANZA IN ABRUZZO

 

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Il 26 giugno 2018 sono stati pubblicati dall’ISTAT, Istituto Nazionale di Statistica, i dati sulla povertà in Italia in riferimento all’anno 2017 (https://www.istat.it/it/files//2018/06/La-povert%C3%A0-in-Italia-2017.pdf).

Stando alle statistiche in Abruzzo ci sono 86.345 famiglie che vivono in condizioni di povertà relativa. Per povertà relativa si intende, come parametro di riferimento, una famiglia composta da due persone che vive al di sotto della media di 1.085 euro al mese.

Calcolando che in Abruzzo vivono all’incirca 554mila famiglie, risulta che in povertà relativa vi sono il 15,6% del totale. Per lo più famiglie composte da giovani, famiglie con più di quattro persone e soprattutto famiglie composte unicamente da stranieri o miste.

A emergere con chiarezza è un altro dato: la differenza tra la statistica del 2016 e quella del 2017. In un solo anno c’è stata una variazione peggiorativa del 5,7%. Per capirci, peggiorano le condizioni in tutta Italia con una media generale dell’1,7%, percentuale trainata dalle regioni meridionali con una variazione media del 5,0%. Noi andiamo peggio.

Andiamo avanti. Come diffuso dall’INPS e pubblicato dal quotidiano Il Centro (http://www.ilcentro.it/pescara/pensioni-d-oro-a-cinquecento-abruzzesi-1.1955665), in Abruzzo al 01/01/2018 ci sono 424.488 assegni pensionistici, di questi addirittura l’81,4% è al di sotto di 1.000 euro.

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Non è finita qua. Quanti di voi hanno sentito parlare di aumento dell’occupazione e ripresa della crescita? Penso tutti quelli che abbiano visto almeno un telegiornale negli ultimi 6 mesi.

Analizzando i dati forniti dall’osservatorio sul precariato dell’INPS, relativi all’occupazione in Abruzzo, notiamo come si è evoluta la creazione di posti di lavoro con dei contratti a tempo determinato e con dei contratti a tempo indeterminato dal 2015 al 2017 (https://www.inps.it/docallegatiNP/DatiEBilanci/Osservatori-statistici-e-altre-statistiche/Documents/Osservatorio_Precariato-Gen-Dic_2017.pdf). Con i primi nel 2015 sono stati creati 92.702 posti di lavoro, 102.443 nel 2016 e 132.183 nel 2017; mentre con i secondi nel 2015 sono stati creati 50.405 posti di lavoro, 29.375 nel 2016 e 25.418 nel 2017. C’è da aggiungere che il complesso di assunzioni, il quale comprende anche le assunzioni stagionali, ha visto un incremento del 20,9% nell’arco di tempo indicato dall’indagine. Insomma tanto nuovo lavoro cosiddetto precario.

Per concludere questa carrellata di dati in bellezza ci vuole la ricerca sull’andamento del sistema manifatturiero effettuata da Confindustria Abruzzo e il Cresa (Centro regionale di studi e ricerche economico-sociali). I dati di questo studio (http://www.confindustria.abruzzo.it/2012-07-06-15-25-52/anno-2018/giugno-2018/464-rapporto-sull%E2%80%99andamento-del-manifatturiero-abruzzese-anno-2017.html) ci dicono che dal 2016 al 2017 c’è stata una variazione positiva del 4,7% della produzione, del 3,7% del fatturato e del 1,7% dell’export.

Insomma, cosa ci racconta la lettura dei dati appena esposti? Ci racconta che all’aumentare delle assunzioni non corrispondo salari duraturi e sufficienti per una conduzione dignitosa della vita. Ci racconta che le persone anziane e con invalidità oltre ad avere difficoltà oggettive sono anche sprovviste di un reddito adeguato. Non solo. Ci racconta anche che la crescita, l’aumento del volume della ricchezza, continua a finire nelle tasche dei più ricchi e non in quelle dei più o meno poveri.

In tre parole: aumentano le disuguaglianze.

Le disuguaglianze fanno caso al Paese di provenienza? Fanno al caso al colore della pelle? Fanno caso alla religione o alla cultura di appartenenza?

No. E da questa base possiamo cominciare a ragionare su come uscire dalle sabbie mobili in cui ci hanno condotto.

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ALCUNE CIFRE DELLA VIOLENZA SULLE DONNE IN ABRUZZO

ALCUNE CIFRE DELLA VIOLENZA SULLE DONNE IN ABRUZZO

In tutto il mondo le donne si stanno rivoltando. In ogni angolo del globo non c’è più una donna disposta a vederne un’altra uccisa per mano di un uomo. Le ragioni di questo movimento globale non sta a me spiegarle. Lo fanno direttamente le protagoniste quando danno vita al più grande corteo da quelli contro la guerra in Vietnam, per quanto riguarda gli Stati Uniti (1). Quando bloccano la produzione astenendosi da qualsiasi tipo di lavoro e mansione, come nel caso della Polonia (2). O quando in Italia in 200mila marciano per le strade e le piazze della capitale dietro lo striscione con su scritto “NON UNA DI MENO” (3).

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In questo contesto globale, c’è una domanda su tutte ad animare la mia curiosità. Ci sono le condizioni affinché possano verificarsi anche in Abruzzo manifestazioni di donne così potenti?

Un quesito che per essere posto ha bisogno di basi. Innanzitutto esiste il fenomeno della violenza sulle donne nella mia cara regione? Ebbene, l’Abruzzo è una regione violentissima con le donne. Secondo i dati usati dall’assessore Marinella Sclocco per presentare il Piano Sociale Regionale 2016-2018 (fig. 1), nel 2014 l’8,3% delle donne abruzzesi ha subito violenza. Si tratta del doppio rispetto alla media nazionale (4).

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Dunque siamo alle prese con una questione sociale che ha una portata su una fetta enorme della popolazione abruzzese. Un problema che va analizzato bene per essere risolto immediatamente. E quindi, quali forme assume la violenza in questo territorio? Ci sono dei luoghi privilegiati in cui avviene?

Consultando il rapporto del progetto “L.e.A. – Lavoro e Accoglienza, Ricerca intervento sul fenomeno della violenza sulle donne della Regione Abruzzo” (5) è possibile tracciare le linee del profilo di questo Abruzzo machista. In primo luogo la violenza si consuma fisicamente, psicologicamente ed economicamente soprattutto in casa e all’interno di una relazione di affetto. In secondo luogo l’indagine registra come fenomeno caratteristico “la privazione della libertà”. Nel territorio abruzzese questa è implicita nelle dinamiche storicamente connesse ad una visione del femminile come “oggetto di tutela e proprietà del maschile”. Il risultato frequente di questo atteggiamento possessivo è l’isolamento, l’esclusione, il senso di colpa e l’autocolpevolizzazione della donna. Infine è interessante mettere in evidenza quanto emerge rispetto alla condizione delle donne immigrate. In questi casi si subiscono doppi condizionamenti culturali: quelli del Paese d’origine e quelli della comunità ospitante.

A questo punto siamo pronti per arrivare al cuore di questa breve disamina. In quale modo si possono arrestare comportamenti che affondano le radici in centinaia di anni di patriarcato? Quali soluzioni suggeriscono le associazioni delle donne che si occupano di contrastare quotidianamente la piaga della violenza maschile in Abruzzo? Sempre nella ricerca “L.e.A” si invocano interventi regionali pianificati nel sistema scolastico perchè non solo nelle case ma anche nelle aule crescono e maturano i futuri carnefici. Inoltre ad essere segnalati come urgenti sono soprattutto i cambiamenti nel mondo del lavoro. Non a caso nel 2015 in questa regione il tasso di occupazione delle donne era ampiamente al di sotto del 50% (6) e ad oggi non mi sembra ci siano ragioni per pensare che la situazione sia migliorata nell’ultimo anno.

Concludendo si può affermare che i campi della formazione e del reddito sono i terreni cruciali su cui si combatte questa lotta per la libertà. Così come è necessario pretendere  l’aumento delle risorse destinate alle strutture che svolgono funzioni vitali per l’accoglienza e la protezione, nonchè per lo sviluppo di percorsi autonomi di autodeterminazione. Lo dicono gli 8 punti del testo con cui il movimento NON UNA DI MENO ha accolto la proposta dello sciopero globale per l’8 marzo (7). Lo dicono i Centri Antiviolenza e le associazioni delle donne in Abruzzo.

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Marco Iasci

Note

1 – http://www.ansa.it/lifestyle/notizie/societa/integrazione/2017/01/22/le-donne-in-marcia-a-washington-la-piu-grande-protesta-di-piazza-nella-storia-usa_44442e4c-c560-4eea-9cd1-d8b0777774f4.html

2 – http://tg24.sky.it/tg24/mondo/photogallery/2016/10/03/polonia-sciopero-donne-aborto.html

3 – http://www.internazionale.it/notizie/2016/11/28/manifestazione-roma-donne

4 – http://www.ilcapoluogo.it/2016/04/01/abruzzo-boom-di-anziani-e-violenze-sulle-donne-la-regione-corre-ai-ripari/

5 – http://www.regione.abruzzo.it/xConsiglieraParita/docs/lea_presentazione/LeA_rapporto.pdf

6 – http://www.cislabruzzomolise.it/index.php/explore/studi-e-ricerche/item/le-donne-nel-mercato-del-lavoro-in-abruzzo-e-in-molise

7 – https://nonunadimeno.wordpress.com/2017/02/08/8-punti-per-l8-marzo-non-unora-meno-di-sciopero/

Giovani senza paura

Avete saputo che per più di una settimana nella città di Lanciano tutte le scuole sono state occupate o autogestite? Forse qualcuno ne è venuto a conoscenza grazie alle inconsistenti retate della polizia con gli elicotteri e i cani antidroga (1). Già, solo per questo i giornali si sono sentiti in obbligo di fare informazione. Di articoli e di interviste sulle ragioni della protesta neanche l’ombra.

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Foto di Christian Scutti presa da Facebook

E allora mosso dalla curiosità, dopo aver appreso di questa larghissima mobilitazione, ho fatto un giro nella mia ex scuola, il Liceo Classico “Vittorio Emanuele II”, e al Liceo Scientifico “Galilei” per parlare direttamente con i protagonisti.

Per chi vuole capire cosa c’è in movimento la prima domanda è d’obbligo: cosa vi ha spinti a protestare? Non c’è una riforma in corso d’approvazione e infatti ad essere contestati sono gli effetti della Buona Scuola approvata dal Governo Renzi il 9 Luglio 2015 (2).

Il ministro Giannini diceva che avrebbe aiutato l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro? Pare che sia andata male. Infatti sotto la lente della protesta c’è proprio lo sfruttamento dovuto all’alternanza scuola-lavoro. Cioè l’imposizione agli studenti di mansioni lavorative inadatte a valorizzarne gli studi, senza la possibilità di proporre alternative alle opzioni fornite dalla scuola e con la valutazione che pesa in sede d’esame al posto della terza prova.

Ma le responsabilità sono solo del governo? No. Ad essere chiamata in causa è anche la giunta regionale guidata da Luciano D’Alfonso. Infatti uno dei motivi per cui i giovani sono in agitazione è la legge sul diritto allo studio della Regione Abruzzo risalente al 1978 (3). Può una legge di 50 anni fa essere ancora adeguata? A detta degli studenti intervistati “è troppo vecchia” per risolvere gli ostacoli materiali ed economici che trovano lungo il percorso di studi. A fronte delle centinaia di euro spesi per i libri, degli aumenti delle tariffe degli autobus TUA (4) e della crisi economica che ha colpito le famiglie, il welfare studentesco è fermo a decenni fa.

La soluzione delle scuole per ovviare ai tagli degli ultimi anni è il ricorso al contributo volontario che, oltre ad essere obbligatorio invece che volontario, è gestito assolutamente senza trasparenza scatenando l’indignazione degli iscritti.Gli striscioni all’ingresso del Liceo Scientifico esprimono questa insoddisfazione a caratteri cubitali:

NELLA SCUOLA CHE VORREI SO DOVE VANNO A FINIRE I SOLDI MIEI”.

Insomma una situazione disastrata. A cui gli studenti si ribellano, certo, però nel silenzio dei media e senza il giusto appoggio degli adulti. Che fanno i professori? Sono spaccati. Ci sono quelli che danno una mano a gestire i corsi di autoformazione, considerati dagli studenti più attuali dunque molto più interessanti dei programmi scolastici standardizzati, e quelli che terrorizzano intere classi minacciando bocciature. E i genitori? Anche loro divisi. A Lanciano sono arrivate le immagini da Roma dello sgombero del Liceo Azzarita agito dai genitori con schiaffi e strattoni (5). Il prodotto è un’altra polarizzazione tra chi si schiera a favore della protesta e chi vorrebbe la sua fine il prima possibile. Insomma, in questo stallo tra due schieramenti contrapposti di adulti ci sono i giovani che parlano e urlano. Ma l’effetto apparente è un suono muto.

classico

Foto di Zona Ventidue presa da Facebook

E’ apparente perché questo riguarda il rapporto con l’esterno. La ricchezza si sposta su linee orizzontali e all’interno delle occupazioni stesse. Sono le relazioni tra gli studenti a valere più dell’oro. Provo a essere più chiaro. Come si sono organizzati per mobilitare tutte le scuole contemporaneamente? Quali rapporti intercorrono tra rappresentanti e semplici studenti? C’è un collegamento tra le organizzazioni studentesche presenti in città e la direzione della protesta?

Innanzitutto c’è un costante dialogo tra i rappresentanti degli studenti delle diverse scuole grazie ad un gruppo what’s app. Questa è la direzione organizzativa comune di questa mobilitazione.

In secondo luogo, i rappresentanti si attivano solo su spinta della base composta dagli altri studenti. Considerano il loro ruolo un servizio per gli altri e agiscono politicamente oltre la crisi della rappresentanza odierna. Da parte sua chi è rappresentato è presente e preme affinchè ciò che gli interessa sia portato avanti. Insomma, per l’evoluzione di quel concetto chiamato democrazia c’è speranza.

E’ evidente che in questo scenario le organizzazioni studentesche, sia di sinistra che di destra, non dirigono alcunchè. Si sentono citare i movimenti in difesa del territorio, come No Ombrina, per indicare dei punti di riferimento. Eppure sarebbe eccessivo pensare che un evento piuttosto che un altro abbia incubato questa protesta. Di sicuro l’autorganizzazione degli studenti non ha lasciato spazi alle organizzazioni preesistenti. E’ altrettanto sicuro però che è mancato un corteo, un momento in grado di unire non solo i rappresentanti ma tutti gli studenti delle scuole di Lanciano. Una grande manifestazione nelle vie della città per concludere queste settimane dense di partecipazione avrebbe potuto sfondare il muro dei media. Ma si sà, i limiti servono per essere superati.

Dunque arriviamo alla conclusione. Cosa lascia questa esperienza? Questa “crescita inequivocabile”? Questa “comunità che si è unita” nelle occupazioni e nelle autogestioni di metà dicembre?

“A non aver paura! Non si deve avere timore a lottare per i propri diritti.”

E’ un patrimonio enorme e molto altro avrebbe meritato di essere raccontato.

 

Grazie a Ilaria, Lorenza, Niccolò, Giacomo, Simone, Francesco, Christian e Lorenzo per le interviste.

 

P.s. Il virgolettato sono parole o frasi estrapolate dalle interviste.

Marco Iasci

Note

1 – http://www.videocitta.it/articoli/controlli-a-tappeto-dei-carabinieri-nelle-scuole

2 – http://www.camera.it/leg17/522?tema=il_disegno_di_legge_di_riforma_della_scuola

3 – http://www2.consiglio.regione.abruzzo.it/leggi_tv/abruzzo_lr/1978/lr78078.htm

4 – http://www.pescarapost.it/economia/autobus-tua-aumenta-costo-abbonamenti-biglietti-1-settembre/57433/

5 – http://roma.repubblica.it/cronaca/2016/11/25/news/il_liceo_occupato_sgomberato_dai_genitori-152755110/

Un punto di vista provinciale sulla riforma costituzionale

12662686_979174652162453_71518864482645129_nIl governo Renzi ha approvato la riforma costituzionale su cui si gioca il suo futuro. Ma è davvero questo il punto su cui concentrare la nostra attenzione? Secondo me no. E allora su cosa ci dobbiamo concentrare? Innanzitutto dobbiamo capire perché ci interessa questa riforma. Io sono tornato a vivere in Abruzzo da poche settimane dopo aver studiato per anni a Roma e ho intenzione di restare qui a lungo. Dunque il mio intento è esprimere un punto di vista ancorato da qui, basato su ciò che leggo a partire da questa regione, dalla mia provincia che nessuno capisce bene come è stata cancellata o lo sta per essere (saranno cancellate grazie al nuovo art. 114 cost.). E qui emerge un punto, quello principale secondo la mia lettura degli articoli della riforma costituzionale. Si tratta del potere. La riforma costituzionale svuota di potere le istituzioni più vicine ai cittadini. Accentra l’autorità pubblica nelle mani dello Stato e del governo, che ha i suoi ministeri a Roma, scippando ai territori la capacità di prendere decisioni. Sarà chiaro a tutti come già il processo di integrazione europea ha eroso sostanzialmente la possibilità per i cittadini di contare qualcosa. Eppure questa riforma spacciata come la soluzione a tutti i mali del Belpaese non fa nient’altro che dare un’accelerazione e chiudere definitivamente questo processo.

Avete presente No Ombrina? Quel movimento vincente che ha distinto la nostra regione, la nostra provincia, i nostri comuni nel resto d’Italia? Ebbene quel movimento, se fosse passata un anno fa questa riforma costituzionale, non sarebbe riuscito a vincere. Non sarebbe stato possibile perché le istituzioni locali, che allora sono state costrette a seguire le indicazioni provenienti dalla mobilitazione dei cittadini, non avrebbero avuto la capacità di rappresentare la scelta espressa dalla popolazione e bloccare l’opera voluta dalle lobby petrolifere. Infatti il governo, con la nuova costituzione, sarà l’unico padrone delle sorti di milioni di cittadini sparsi sul territorio nazionale. Le scelte energetiche, le norme generali a tutela dell’ambiente saranno competenze esclusive dello Stato e non più condivise con le regioni. La salute dei cittadini, la bellezza di vedere paesaggi stupendi e la possibilità di abitare in territori sani non dipenderà più da ciò che scegliamo. Non ci sarà più la possibilità di opporsi alle scelte del governo se l’abbiamo votato ma nello specifico di una decisione che ci riguarda volessimo fargli capire che si sbaglia. Chissà cosa ne pensano gli elettori del PD che si sono opposti a Ombrina Mare.

E la disoccupazione? Quella giovanile? Con la riforma ci sarà crescita economica?  Ovviamente no. La programmazione delle politiche attive per l’occupazione e la pianificazione dello sviluppo economico territoriale spetteranno allo Stato, cioè al Governo, mentre le regioni saranno limitate a promuovere e organizzare praticamente le scelte che provengono da Roma. E così senza un salario minimo ci sarà il dilagare di tirocini gratuiti, offerte di lavoro pagate con voucher o a meno di cinque euro l’ora. Grazie al Jobs Act magari le statistiche sull’occupazione ci faranno credere che la crescita è ripartita, ma se saremo costretti a fare due lavori per guadagnare ciò che appena basta per sopravvivere allora l’unica cosa a crescere sarà di nuovo la nostra pena.

Ma almeno verranno dati i soldi alle regioni per fare quelle poche cose che gli competeranno? I soldi arriveranno e si avrà autonomia di spesa per le politiche sociali solo se le regioni saranno “meritevoli”, ovvero solo se ci sarà un equilibrio tra entrate e spese nel bilancio (nuovo art. 116 cost.). A me, che ho visto questa formula già utilizzata nell’ultima riforma dell’università italiana, si gela il sangue nelle vene. E’ in questo modo che si è ampliata la diseguaglianza tra gli atenei del Nord con quelli del Sud, con questi ultimi penalizzati fino al livello di investimento per il diritto allo studio ridotto a 1/3 dei primi. Applicato alle regioni questo metodo di distribuzione delle risorse significherebbe commissariare le istituzioni di gran parte del Sud Italia. E quindi niente possibilità di istituire il reddito di cittadinanza per le regioni? Ebbene no, l’unica cosa che valeva la pena costituzionalizzare non è nel testo della riforma. Niente reddito, niente democrazia, niente dignità.

E Italicum e modifica del senato non migliorano niente? Giudicate voi. Vi dico solo che la nuova legge elettorale non garantirà una maggioranza di governo stabile. Infatti i partiti che formeranno la lista vincente potranno continuare a litigare ponendo termine alla legislatura in qualsiasi momento. Quindi le promesse di Renzi non hanno basi solide. Inoltre il Senato, con membri e poteri ridotti, smette di essere un contrappeso all’autorità del governo nei conflitti con gli interessi delle popolazioni regionali. Mi direte che almeno si riducono i costi della politica. Si, meno di 150 milioni di euro ( https://www.webeconomia.it/riforma-senato-quale-risparmio-con-la-legge-di-renzi-e-boschi/10573/ ). Ma se pensate ai Panama Papers, cioè all’evasione fiscale di 7600 miliardi del tutto legale da parte di migliaia di super ricchi tra cui centinaia di italiani ( http://espresso.repubblica.it/inchieste/2016/04/14/news/panama-papers-nascosti-offshore-7600-miliardi-1.260215 ), allora capirete che queste motivazioni sono un abbaglio colossale.

Ma quindi cosa dobbiamo fare affinchè i cittadini non finiscano di perdere quel poco di potere che hanno ancora? Innanzitutto essere comprensibili nella campagna per il No al referendum di ottobre. Dobbiamo evitare di perderci in tecnicismi come vedo fare da parte dei costituzionalisti nei programmi tv e nelle interviste ai quotidiani. Spero che questo approccio, quello di un punto di vista radicato al territorio, nel mio caso radicato alla provincia, radicato all’Abruzzo regione verde d’Europa, aiuti ad andare in questa direzione. Trasformiamo questo referendum in un processo costituente. Facciamolo a partire dalla base della piramide sociale e non dalla cima.

Marco Iasci

Note

Qui potete trovare il testo della riforma costituzionale: http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2016/04/15/16A03075/sg